Pasquale Imperatrice

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NOME: Pasquale Tommaso Maria
COGNOME: Imperatrice
LUOGO E DATA DI NASCITA: 27 agosto 1881, Grottaglie
PROFESSIONE: avvocato, scrittore, pubblicista, storico, esponente di spicco del Fascismo
VITA: Pasquale Tommaso Maria Imperatrice nacque a Grottaglie il 27 agosto 1881. Nei primi anni del Novecento era già a Taranto, dove svolse la sua professione di avvocato, ma ben presto si distinse come polemista e giornalista di indubbia personalità. Dal 1913 al 1920 diresse “La Libera parola”, organo del partito pro-Taranto. Sempre a Taranto ricoprì importanti incarichi nelle pubbliche amministrazioni.
Durante la grande guerra riportò una mutilazione che gli conferì indubbio prestigio: l’autorità morale completò la figura di “uomo forte” su cui egli fece perno durante quel regime, nel corso del quale egli fu una vera e propria istituzione.
Organizzatore dell’Ufficio Stampa assieme a Raffaele Morione e Nicola De Benedectis, egli sostituì quest’ultimo alla guida del Fascio nell’agosto del 1921, mostrando di saper manovrare le fila della fazione politica; tanto che, al Terzo congresso fascista, a Roma, Imperatrice venne nominato all’Ufficio di Presidenza. Ma il Fascimo jonico era percorso da lotte intestine  e lo stesso Imperatrice si dimise dal Partito il 4 giugno del 1922, pur essendo stato eletto dalla Direzione Segretario del Direttorio.  
Egli, comunque, continuò ad essere onnipresente nella vita politica e culturale del capoluogo. Collaborò con moltissimi giornali, da “Il Mattino”, passando da “La Gazzetta del Mezzogiorno”, a “El Diario Ilustrado” (di Santiago del Cile, nazione che gli conferì onorificenza al merito della Repubblica) e diresse inoltre “L’Indipendente”, “La Fiaccola” e “La Parola Libera”.
Collaboratore del Comune di Taranto, nel quale pubblicò saggi storici, come “Vicende Storiche Taratine dal 1848 al 1870” e “Tarantini dell’ 800”.
Insomma, come è stato giustamente detto, Imperatrice è  stato, nei primi decenni del secolo,  un personaggio davvero onnipresente.
Pasquale Imperatrice morì a Taranto il 16 gennaio 1962.
 
FONTI BIOGRAFICHE: “Grottaglie nel tempo”, Rosario Quaranta.

Don Cosimo Occhibianco

Foto di repertorio

DON COSIMO OCCHIBIANCO
NOME :  Cosimo      
COGNOME: Occhibianco
LUOGO E DATA DI NASCITA: Grottaglie, 23/10/1927
RESIDENZA: Grottaglie
STUDI E TITOLI CONSEGUITI: Corso Ginnasiale a Taranto;
Corso Liceale a Molfetta (BA); licenza in Sacra Teologia presso la Facoltà Teologica di Posillipo (NA); laurea in Filosofia presso l’Università statale di Lecce;
PROFESSIONE: Ha insegnato religione nelle scuole superiori; attualmente è Vice Parroco presso la parrocchia Maria SS. del Rosario di Grottaglie.
VITA: Don Cosimo nasce da una modesta famiglia contadina. Il padre era un umile contadino che viveva alla giornata e possedeva un piccolo vigneto a mezzadria nella contrada Galeasi (Grottaglie) ed altri due appezzamenti di terra a Sant’ Elmo (Grottaglie). La madre, Blasi Addolorata (detta “Zippun’ culu”) era lavandaia presso il sanatorio di Grottaglie, dove, nonostante il suo analfabetismo, si occupava con una spiccata intelligenza della contabilità di tutto l’istituto.
 Don Cosimo era molto legato alla madre perché lei rifletteva una devozione ed uno spirito di sacrificio enorme, nell’ occuparsi del sanatorio grottagliese, e dei malati tubercolotici ivi residenti. Aveva diversi, tra fratelli e sorelle, di cui attualmente tre ancora in vita; un particolare ricordo ha della sorella Filomena, venuta a mancare all’ età di soli dodici anni a causa di una broncopolmonite. Nei ricordi di Don Cosimo, Filomena era una bambina dotata di grande intelligenza, bontà e generosità. Molte volte Filomena restava a digiuno per giorni come atto di penitenza e, per contribuire economicamente al sostentamento della famiglia, frequentava la scuola elementare solo una volta la settimana (con ottimi risultati), lavorando, nei restanti giorni, nella fabbrica di tomaie di Vito Cofano, situata nei pressi del centro storico in Via Madonna del Lume. 
– Seminario
A causa delle precarie condizioni economiche familiari, il padre si opponeva all’entrata in seminario del figlio, tanto che una sera, durante un’accesa discussione, scaraventò a terra il piatto di “fai e fogghij” (fave e verdure) e Cosimo, le raccolse da terra e lo continuò a mangiare. Infine, grazie alla madre che desiderava con tenacia che il figlio cominciasse a studiare, il 14 ottobre del 1939, a soli undici anni, entrò in seminario. A Don Cosimo quella data è rimasta impressa nel cuore. Era la giornata d’addio e di distacco da sua madre che adorava immensamente! Pianse per giorni, silenziosamente, tutte le notti. Distacco mai più ricucito! A distanza di anni Don Cosimo avverte ancora quello strappo.
Tentò di scappare dal seminario ma non ci riuscì. A quell’ improvvisa mancanza affettiva reagì non studiando e diventando sempre più triste, taciturno, scontroso, irascibile, ribelle. Tutto il trimestre fu uno sfacelo completo: la pagella fu costellata di 1 e di 2 in tutte le materie. Non riusciva ad accettare quella situazione: stare otto ore seduto nell’arco di una giornata.
Don Cosimo era passato dall’assoluta libertà della strada, alla rigidezza del ferreo orario del seminario; dalla libertà di mangiarsi un pezzo di pane asciutto e duro seduto sul marciapiede, alla severità dello stare seduto e composto a tavola senza sporcarsi; dalla libertà di vestire scalzo, seminudo, senza mutandine, con un calzoncino che era una vera e propria carta geografica per i molti rattoppi, alla rigidezza del colletto osseo che gli strozzava la gola, alla giacca grigia stirata e pulita, ai calzoni lunghi con la piega, alle scarpe nere, strette e pulite. Dalla libertà di parlare, scrivere e bestemmiare nel suo dialetto, era arrivato alla costrizione di parlare e di scrivere in italiano (senza conoscerlo) e a non dire parolacce… o magari a dirle in italiano usando eufemismi!
Il sistema educativo dell’epoca, a scuola come a casa e in seminario, era molto rigido, repressivo, gnostico, manicheo. Chi andava a mare per farsi un bagno… non aveva certamente la vocazione per essere prete!
A passeggio si andava in fila per due, con un compagno che il prefetto assegnava all’ inizio dell’anno scolastico. Si andava con gli occhi bassi… per non guardare le ragazze, cause di tanti “pensieri cattivi”. Spesso, per andare con gli occhi bassi si urtavano i pali della luce… e si bestemmiavano i morti… ma in italiano!
Di tanto in tanto si veniva apostrofati con un grido “sacchi ti craù!” ( sacchi di carbone). Con le intenzioni più buone di questo mondo, per farli comportare bene e per reprimere il dialetto, il Rettore, Mons. Michelangelo Ridola, suggerì al Prefetto, Biagio Strusi, due medaglie di cartone. Su di una era scritto “ho parlato in dialetto” e sull’altra “ho messo le mani addosso”.
Chiunque aveva questa medaglia cercava con tutti i mezzi di passarla al compagno, inducendolo a parlare in dialetto o ad usare le mani.
Chi dopo cena, poi, aveva una delle medaglie, passava la sera in ginocchio in un angolo del corridoio, mentre tutti gli altri giocavano allegramente, sfottendo spesso il mal capitato, che diventava così lo zimbello di tutti.
Ogni sera, immancabilmente, Cosimo aveva la medaglia del dialetto; ogni sera era un tormento… era un pagare il fio all’ italiano, che respingeva come una lingua imposta con tutta la forza. Una di quelle sere, mentre era in ginocchio piangendo (e bestemmiando silenziosamente i morti al Rettore e al Prefetto), un compagno andò a sfotterlo con degli scappellotti e dicendogli: “cce rrécchji ti ciucciu”! (che orecchie d’ asino!).
A quell’ insulto, con gli occhi pieni di lacrime, scattò in piedi inviperito si avventò sul compagno, di nome Fedele, e afferrandolo per la vita, fece per gettarlo dalla finestra del 1° piano. I compagni impauriti, gridando, intervennero rapidamente evitando l’irreparabile. Le grida fecero accorrere il Prefetto, il quale, anche lui impaurito, lo portò dal rettore e pur sostenendo che era stato insultato, ritenne che forse era impazzito. Il Rettore, senza porre indugi e dopo una solenne paternale fatta di “… delinquente, deficiente, imbecille, mascalzone… la Chiesa non sa che farsene d’asini come te!”, fece pervenire una comunicazione a casa, affinché i suoi genitori venissero a prenderlo e portarlo via dal Seminario.
L’indomani, di buon mattino col treno delle sei, giunse la madre che non vedeva da un bel pezzo. Era triste, distrutta, umiliata e con gli occhi pieni di lacrime.
Si rivolse al Rettore con tanta sottomissione, ma questi dicendo: “Signora, tuo figlio è un delinquente, non può stare in Seminario; la Chiesa non sa che farsene d’asini come questo ragazzo. Eccoti la pagella!”.
A quella vista sua madre scoppiò a piangere; poi dopo un attimo di silenzio lo prese, lo strinse forte con le sue mani, gli tirò quattro schiaffi solenni (di cui sente ancora il calore e l’amore con cui glieli diede) e fissandolo negli occhi gli disse: “Vuoi farti ancora prete, sì o no?”.
Avrebbe voluto rispondere “no”; ma dopo un attimo d’incertezza, tra le lacrime, fiocamente, rispose: “Si”! “E allora – soggiunse – se vuoi farti prete veramente, cambia condotta! Comportati bene! Studia! Altrimenti a che servono tutti i miei sacrifici quotidiani per te? Diversamente vai a zappare?”. Poi, rivolgendosi umilmente al Rettore: “Monsignore –disse- abbiate pazienza, è ancora un bambino, è molto semplice, buono, generoso… dà tutto quello che ha agli altri…! Abbiate pietà! Tenetelo ancora un trimestre e poi vedremo in seguito”.
Dopo tante preghiere e suppliche, tra incertezze, tentennamenti e dubbi, il Rettore accettò malvolentieri di tenerlo ancora un trimestre.
In seguito lo farà guardare e controllare continuamente, fino a fare di lui un sorvegliato speciale, da tanti piccoli ruffiani (che una volta scoperti odiava a morte). Intanto il vice-Rettore, Don Francesco Buzzacchino, che aveva assistito alle minacce del Rettore, forse perché commosso dalle lacrime di sua madre o forse perché aveva capito il suo temperamento bisognoso d’affetto, lo chiamò in disparte e paternamente gli disse: “Io ti voglio molto bene, ho fiducia in te!” Lo carezzò dolcemente e gli sorrise. Poi congedandolo soggiunse: “ Mimino, quando hai bisogno di qualcosa, vieni da me e non avere paura. Ciao!”. Era quello che gli mancava! Aveva avuto una carezza ed era felice! Qualcuno che gli stava vicino in qualche modo sostituiva sua madre volendogli bene: ora bisognava ricambiarlo! Dopo Natale, cominciò il 2° trimestre.
Fu interrogato in Storia proprio da Don Francesco e andò molto bene, tanto da meritare 8.
Era felice, non solo per il voto, ma soprattutto perché non aveva deluso chi gli voleva bene. Fu la volta della Geografia ed anche qui ebbe 8.
Poi fu la volta dell’italiano, ed ebbe il piacere di essere affisso all’ albo d’onore per il miglior tema. Don Cosimo non riconosceva più se stesso. Era scattata in lui la molla dell’orgoglio e del desiderio di far bene. Capì a sue spese che ogni parola che imparava era un anello rotto alla catena dell’ignoranza che lo rendeva schiavo e zimbello dei suoi compagni, i quali, vedendo questo suo mutamento, non solo non lo sfottevano più, ma cominciarono anche a volergli bene.
– Seconda Guerra Mondiale
 L’anno scolastico si chiuse trionfalmente con la promozione, il 10 giugno 1940, giorno fatidico in cui, al grido di Mussolini “ Italiani, l’ora della rivoluzione è scoccata”, loro risposero gridando incosciamente e ignaramente: “ Vogliamo la guerra!”. E la guerra venne!!! La sofferenza, tutte le restrizioni, i dolori, le distruzioni, le morti violente sotto le macerie di amici, conoscenti, bambini, vecchi, innocenti.
Nel dicembre del 1939, venne in visita a Taranto il cardinale Von Galen, quasi per avvertire dell’imminenza di una guerra. Il cardinale, noto come “leone di Munster” per la sua opposizione al nazismo, fu perseguitato da Hitler, tanto che quattro dei suoi soldati cercarono di prelevarlo davanti alla Cattedrale di Munster, ma impauriti dalla sua altezza di ben due metri e dell’abito pontificale, che rendeva la sua figura ancora più imponente, fuggirono. Il nazismo distrusse la Cattedrale di Munster, ma i tedeschi dopo la guerra la ricostruirono com’era in origine. Il cardinale Von Galen, è l’unico sepolto dietro l’altare della cattedrale.
Durante un bombardamento a Taranto fu affondata la nave “Cavour”, che localizzata di fronte al seminario, costrinse gli stessi a trasferirsi a Martina Franca.
In quel tempo Don Cosimo frequentava il 3° Ginnasio.
Nel giugno, luglio, agosto del 1943, gli aerei bombardarono ogni venerdì del mese e dal seminario, si vedeva il cielo oscurarsi. Uno dei tanti rifugi a Grottaglie era situato sotto via Crispi, sotto il castello, all’interno di una grotta.
In quei bombardamenti cercarono di interrompere la linea ferroviaria Grottaglie – Brindisi (ponte di S. Biagio) ma non ci riuscirono. Nonostante tutto si continuò a studiare e ad andare avanti tra le tante difficoltà.
– Studi
Arrivato al Liceo, si innamorò della Filosofia e cominciò a vagheggiare l’idea di andare a Posillipo per laurearsi in Teologia. Ma per andare lì, bisognava avere alla maturità una certa media e poi superare un esame d’ammissione consistente nel discutere correttamente in latino trenta tesi di filosofia teoretica.
S’impegnò sul serio… e ci riuscì. Diventato sacerdote cominciò ad insegnare religione nelle scuole superiori della provincia e nel frattempo frequentava l’università statale di Lecce, nonostante la proibizione da parte dell’Arcivescovo; perché si pensava che chi andava all’università statale aveva intenzione di sposarsi o di non essere più sacerdote. Conseguì la laurea in filosofia con il massimo dei voti dimostrando che la sua scelta era stata mossa solo dal piacere di studiare con impegno e serietà. Sul retro della sua licenza in Teologia scrisse: “QUI EST LAUREA? EST SIGNUM PATENS LATENTIS IGNORANTAE” (“CHE COS’E’ LA LAUREA? E’ UN SEGNO PATENTE DI UNA LATENTE IGNORANZA”).  Il rettore dell’università lesse inavvertitamente la frase e incuriosito gli chiese il perché si stesse laureando in filosofia.
Lui rispose: “ PERCHE’ QUANTO PIU’ SO’, PIU’ SO’ DI NON SAPERE; SONO IGNORANTE”. Il rettore gli ordinò di cancellarla e Don Cosimo umilmente ubbidì. Una volta conseguita la Laurea, la prese e la nascose in fondo alla libreria arrotolata. In seguito fu scoperta fortunatamente dalla sorella, che la prese e la fece incorniciare all’insaputa di Don Cosimo.
Finito il corso accademico ne uscì pieno di orgoglio e di varie citazioni filosofiche, greche, latine, ebraiche.
Don Cosimo era ormai ricco di cultura, ma povero di quella lingua e di quelle cose del povero popolo a cui era stato destinato; era, insomma, un sacco vuoto… ma pieno di superbia (sue parole)!
Ordinato Sacerdote, il 2 settembre del 1951, dopo 15 giorni fu destinato a Lizzano che non sapeva nemmeno dove si trovasse. Fu accompagnato da suo zio Teodosio col suo traino. Lizzano si presentò come un paese sporco e povero; per le strade si vedevano circolare pecore, capre, galline e maiali… Era un paese difficile! I vice-parroci cambiavano mensilmente. Don Cosimo, invece, resistette un anno. Gli volevano molto bene, perchè curava i malati e ai bambini più poveri faceva doposcuola gratuitamente.
Allo scoccar dell’anno, nel mese di novembre, fu trasferito a Statte, sobborgo di Taranto ed ambiente non migliore del primo. I vice-parroci venivano solo il sabato e la domenica, ma non reggevano più di due domeniche di seguito… Resistette più di quattro anni e cinque mesi e sarebbe rimasto ancora se non si fosse ammalato di reni. Gli volevano un mondo di bene… Era per loro papà, amico, fratello; teneva tutto aperto, non ci stavano segreti, tutto in quella triste povertà era bello, limpido, chiaro, senza ipocrisie. Parlava la loro lingua… Era diventato uno di loro.
In seguito Don Cosimo ebbe l’incarico di insegnare Religione prima alla “Galilei”, poi alla “Mazzini” e quindi al Liceo Classico “Archita”.
In questo ambiente si sentiva a suo agio. Rispolverò tutta quella cultura appresa a Posillipo facendone sfoggio e studiava continuamente per non sfigurare con i santoni della cultura classica.
A causa dei calcoli renali Don Cosimo, fu destinato nel 1956 a Grottaglie, presso la Parrocchia del Carmine, dapprima con Don Francesco Marinò, poi con Don Dario Palmisano, amico affezionato e compagno inseparabile fin dalla seconda media e per tutto il percorso di studi, e infine con Don Cosimo De Siati.
Giunto a Grottaglie si era illuso di essere arrivato nella metropoli della cultura, per cui bisognava studiare ed imporsi col sapere.
Don Cosimo scriveva le sue omelie con un linguaggio aulico ed esoterico. La domenica, mentre predicava, notava che le sue vecchiette, avvolte nel loro “fazzulittoni” (scialle), chinavano la testa dolcemente dandogli l’illusione che annuissero al suo parlare. Così convinto, ha continuato imperterrito per alcuni mesi, arricchendo il suo frasario con paroloni e concetti sempre più difficili ed estrosi. Un giorno di maggio del 1956, narcisisticamente soddisfatto della sua bella predica infarcita di paroloni e di concetti metafisici, uscendo davanti alla Chiesa, chiese ad una vecchietta di nome Mutata d’Amicis, soprannominata “Percaccia” ( ? ) con la quale Don Cosimo era in confidenza: Mutà!, cce tti piaci comu parlu? (Mutata ti piace come parlo?) Avvolgendosi nello scialle e con un sorriso ironico e malizioso gli rispose: o va ffa ncùl’a tte ca parli, ci càzzu ti capisci !Tu nni faci viné lu suénnu!!…(o vaffanculo a te che parli, chi cacchio…ti capisce! tu ci fai venire sonno!). Si girò e se ne andò. Don Cosimo rimase malissimo. Era stato ferito nel suo orgoglio. Non aveva più parole. Così, per riprendersi, chiese ad un’altra vecchietta di nome Mutata Santoro e soprannominata “Cuzzieddu”( ? ): Mutà!, cce tti piàci comu parlu?(Mutata!, ti piace come parlo?).
Dopo un attimo di silenzio anche questa ,avvolgendosi nel suo scialle e con un sorriso più bonario che malizioso, gli rispose: Ton Cò, ci cazzu ti po’ ccapé, cu ttutti quiri palòri luenghi luenghi… nni faci viné lu suénnu tòci-tòci! … tu la tuménica nni tè lu papàgnu! (Don Cosimo, chi cacchio… ti può capire, con tutte quelle parole lunghe lunghe!!… ci fai venire il sonno dolce dolce”… tu la domenica ci dai il sonnifero). Con questa frase Don Cosimo ebbe il colpo di grazia! Fu la giornata più brutta della sua vita. Stette tanto male che Don Francesco ebbe paura nel vederlo così pallido e triste, per cui gli diede subito una tazza di caffè con delle gocce di coramina. A mezzogiorno Don Cosimo andò a casa e sua madre, vedendolo così depresso, dopo tante insistenze gli tirò fuori la domanda: mà?, la pretica tla tuménica, cce la capisci tuni?(“ Mamma, la predica della domenica la capisci tu?”)… “Figghiu mia- rispose sua madre- ci ti capisci! … cce tti piensi ca sté cu lli vagnùni tla scòla ti Tartu? Tuni, la tumenica… nnu fattariéddu, nnu picca tlu Vancelu, nn’òtru fattariéddu  e ffuci ca gghiòvi!;… cazza, frici e mancia!” … (“Figlio mio, chi ti capisce!, pensi forse di stare con i giovani della scuola di Taranto? Tu, la domenica… un fatterello, un po’ di Vangelo, un altro fatterello e via!… Schiaccia, friggi e mangia”, ossia sbrigati). Don Cosimo ascoltò il consiglio di sua madre e per oltre due mesi esordì con un fatterello, un passo del Vangelo, un altro fatterello e subito concludeva. In tutto impiegava 8-10 minuti. Ritornò di nuovo all’ attacco, chiedendo alle stesse persone se la predica piacesse o meno e la risposta fu unanime: mo’ sini ca nni pigghji di ffessa, cu llu fattariéddu e nni faci sta’ ddiscitati!, no nni vinni cchiù papagnu…! Bbrau! Bbrau! (adesso sì che ci prendi in giro, con il fatterello e ci fai stare svegli, non ci vendi più sonnifero…..! Bravo ! Bravo!). Don Cosimo non aveva ancora capito che l’omelia è per i fedeli e non i fedeli per l’omelia, così come la scuola è per gli alunni e non gli alunni per la scuola! Gesù adattava il suo linguaggio alle folle che lo ascoltavano!
Da allora Don Cosimo ha continuato la sua attività ecclesiastica e ha dedicato buon tempo allo studio e alla pubblicazione di numerosi volumi che riguardano le tradizioni, la cultura e lo spirito della comunità grottagliese
– Opere
 Don Cosimo ha scritto e pubblicato:
1) “…Ccussì ticévunu li nanni nuésci” (Così dicevano i nostri nonni). Raccolta di proverbi.
2) “…Ccussì parlàvunu li nanni nuésci” (Così parlavano i nostri nonni). Vocabolario grottagliese in tre volumi.
3) “…Ccussì ritévunu li nanni nuésci” (Così ridevano i nostri nonni). Raccolta d’indovinelli e barzellette.
4) “…Ccussì priàvunu li nanni nuésci” (Così pregavano i nostri nonni). Raccolta di preghiere.
5) “…Ccussì si sintèvunu li nanni nuèsci” (Così si sentivano i  nostri nonni).
Raccolta dei soprannomi grottagliesi.
6) “ Grottaglie che ora è?”.
7) “ La chiesa della Madonna del Lume ”.
 
Civiltà contadina, quaderni:
1° -Tessitura e tessitrici
2° – Li falignami (i falegnami)
3° – Li scarpàri (i calzolai)
4° – Li furnari (i fornai)
5° – Li cusitùri (i sarti)
6° – Li fabbricatùri (i muratori)
7° – Lu calannariu vurtagghiesi (il calendario grottagliese) dal 1994 al 2003
 
 Di prossima pubblicazione:
“…Ccussì si sintévunu li nanni nuésci” (Così si sentivano i nostri nonni). Raccolta di soprannomi grottagliesi. I motivi di questa prossima pubblicazione, sono:
1°- fare uno studio serio e approfondito di tutti i soprannomi grottagliesi traendoli fuori dai registri di battesimo, di morte, dalle conclusioni capitolari, etc…;
2°- per preservare, quale prezioso documento storico, tutto questo materiale che rivela interessanti informazioni di natura non solo linguistica- dialettologica ma anche etniche, socio-economiche ed etnografiche;
3°- per convocare tutti intorno chiamandoli chi per nome, chi per cognome, chi per soprannome. Con quell’identico amore avuto nei loro riguardi per quarant’ anni nella Parrocchia del Carmine;
4°- per spiegare etimologicamente i loro soprannomi per smussare e dolcificare le loro asprezze e angolosità e talora la loro simpatia.
5°- per chiamare tutti a raccolta, vivi o defunti, in occasione della sua festa particolare, 50 anni di sacerdozio (02/09/2001), per offrire ai vivi un rinfresco (fatto nella realtà) e ai defunti un doveroso suffragio, ma a tutti un sentito ringraziamento per quel piccolo contributo umile e silenzioso dato nel loro tempo, con la loro vita e con il proprio mestiere alla storia del loro paese. Chi più, chi meno, ha contribuito alla storia.
Ha scritto, ma non pubblicato per questioni economiche, i seguenti quaderni: i fabbriferrai, i barbieri e i frantoiai. In suo aiuto servirebbe un mecenate, perché sino ad ora le spese delle pubblicazioni sono state da lui affrontate con grande difficoltà.  Inoltre, sta ultimando un libro contenente la traduzione, il commento e le note storiche di tutte le epigrafi latine esistenti in  Grottaglie.

Francesco Antonio Caraglio

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NOME: Francesco Antonio
COGNOME: Caraglio
LUOGO E DATA DI NASCITA: 4 settembre 1627, Grottaglie
PROFESSIONE: Capitolo grottagliese
VITA: Francesco Antonio Caraglio nacque in Grottaglie il 4 settembre del 1627 da Giovanni Antonio notaio e da Rosa Aurifatis e battezzato il giorno seguente dall’ abate Cataldo Mannara, dottore in utroque jure e Cantore della collegiata, essendo padrini il dottor Donato Cesare e Vittoria di Natale.suo padre rogò in Grottaglie dal 1626 al 1670, come risulta ancora dagli atti che si conservano nell’ Archivio di Stato di Taranto. Apparteneva dunque a una famiglia agiata che gli permetteva di compiere gli studi e di intraprendere la carriera ecclesiastica. Riuscì, ad addottorarsi giovanissimo in diritto a Roma e a divenire canonico e arciprete della collegiata prima ancora di essere ordinato sacerdote. In effetti entrò tra i canonici a soli 20 anni e, nel 1648 precedeva il canonico Marco Faenza che pur era sacerdote, in virtù dell’anzianità nella dignità del canonicato. Nel maggio del 49’, insieme con due altri rappresentanti del clero, si recò a Taranto per l’ubbidienza a San Cataldo; il capitolo grottagliese venne multato nell’ occasione con 150 ducati perché avrebbe dovuto mandare almeno 10 persone; ma lo aveva fatto per non creare pregiudizio in una celebre questione di precedenza che vantava sul clero martinese e che lo stesso Caraglio difese magistralmente nella sua prima opera intitolata “Clypeus adversus Martinensium praetensiones”, scritta appunto in quegli anni.
Il 15 agosto 1649 fu eletto “Razionale” del capitolo. I razionali (erano quattro) avevano il compito di controllare ed “esigere ragione” dell’operato dell’economo, del procuratore dei morti, del tesoriere; assegnare le porzioni, assolvere o condannare gli inadempienti, ecc… Nel novembre dello stesso anno, insieme con D. Giacomo Blasi, si recò dal vescovo di Mottola per discutere un breve di esecuzione sulle “vigesime”. Nei mesi successivi gli vennero affidate diverse cause, questioni e liti di interesse del capitolo, segno inequivocabile che, nonostante la giovane età, i capitolari nutrivano la più ampia fiducia. Nel marzo 1650 lo troviamo già arciprete, a soli 23 anni. Il 1650 non fu un anno tranquillo, infatti, alcuni preti inviano al Nunzio di Napoli un memoriale contro altri preti, per cui si attende un commissario per istruire un processo.
L’arciprete Caraglio, che ha avuto notizia di tale movimento, si premura di fare una relazione all’ arcivescovo Caracciolo, allora a Roma, perché castighi come padrone benignissimo tali figli indegni di questo Capitolo. Sul finire del 1652 gli amministratori dell’Università, impongono sul macinato la gabella di una “cinquina per tumulo da macinare al posto della portulania”, anche ai preti che però ne informano l’arcivescovo perché gli tuteli nella loro immunità. Il periodo dell’alleanza  tra l’Università e il clero sembra tramontato. A difesa del diritto è senza dubbio l’arcivescovo Caracciolo, ma in prima fila nella rischiosa battaglia si troverà, perché investito dalla prima dignità capitolare, il giovane e coraggioso arciprete Caraglio. Intanto, nel 1653, il Capitolo affida al suo capo l’impegnativo incarico di mettere ordine nella confusa situazione e dei molti beni appartenenti alla chiesa per i quali v’erano contestazioni e liti in mancanza degli strumenti relativi al diritto di possesso; il vecchio registro non costituisce più un sicuro fondamento giuridico; è necessario quindi riordinare ogni cosa recuperando gli strumenti e, in mancanza di questi, annotando con dichiarazioni giurate il diritto su tali beni. Una fatica onerosa per la quale nell’ agosto del 54’ il Caraglio chiede collaborazione e aiuto; gli vengono così associati D. Francesco Antonio Blasi e D. Giovanni Antonio Salinaro notaio apostolico. In seguito si aggiunge pure d. Federico Lo Monaco. Due anni dopo due fatti turbano la comunità nei confronti rispettivamente del feudatario laico e dell’università. Vincenzo Velluti, Barone del “criminale”, proibisce con minaccia di carcerazione a tal Donato Antonio Mele e compagni di continuare a lavorare nella conceria sita nell’ abitato, appartenente al Capitolo che, perciò, ricorre, tramite l’arciprete, all’ arcivescovo.
Il governo dell’Università, invece, pretende toglierci il Datio della carne e perciò poichè nessuno avrebbe potuto far valere le ragioni meglio del “Signor Arciprete”, tutti gli si rivolgono perché assuma tale compito. Sembra quasi impossibile eppure Francesco Antonio Caraglio in anni carichi di occupazioni e oneri, trova il tempo per portare a termine un ambizioso disegno: la compilazione dello Status Insignis Collegiatae Ecclesiae Cryptaliensis, una raccolta ordinata e giuridica fondata di tutte le leggi, usi, consuetudini, diritti della Chiesa grottagliese. Caraglio intorno al 1650, aveva già scritto un’opera storica – giuridica sulla vecchia questione della precedenza sul clero di Martina, il Clypeus. Lo Status invece è lavoro di maggior impegno e dedizione rispetto al precedente. Il Capitolo non poteva non accettare con entusiasmo la fatica dell’ottimo arciprete, perciò si concluse che tutti i suoi volumi venissero stampati, a qualunque prezzo. Purtroppo, di stampa non se ne parlò più perché, come venne annotato su una copia tardiva dello Status colui che perseguitò lo stesso autore fino alla morte, fece in modo tale e si preoccupò che i due volumi non fossero dati alle stampe.
Il 15 agosto 1661 il capitolo discute sul caso di un tale Leonardo La Pace, molestato dagli amministratori perché togliesse la bottega della carne dalla piazza ; era un doppio attacco all’ immunità in quanto la bottega apparteneva al Capitolo e serviva quindi per controllare il dazio della carne. La situazione ormai precipita. Alcuni giorni dopo si riprese la questione concludendo di resistere alla palese provocazione. Si ricorrerà quindi nuovamente al superiore ecclesiastico di Taranto, Napoli e Roma per rappresentare tanti aggravi e ingiustizie, che vengono fatti giornalmente ai preti. Il 15 novembre 1661, al Capitolo prendono parte soltanto 51 sacerdoti e canonici; molti quindi gli assenti, segno della paura che coglie diversi ecclesiastici nel frangente.
Prende la parola l’arciprete per fare il punto e ragguagliare la Chiesa sulle provocazioni e violenze a danno non solo degli ecclesiastici, ma anche dei familiari. Il 30 novembre 1661 vi fu l’ultima apparizione in Capitolo del giovane prelato grottagliese. Si trattò proprio di vendere al Principe di Cursi le botteghe nella piazza, che erano state all’ origine di un così grave turbamento, per poter egli ampliare il palazzo baronale. Il Caraglio, nel raccomandare l’utilità della Chiesa e nel contempo la soddisfazione del principe, propendeva per l’assenso, ma incaricò una commissione di studiare bene la cosa. Nelle successive conclusioni egli non compare più, per cui è lecito supporre che minacciato di morte e prevedendo la sua fine, abbandonasse Grottaglie per recarsi in Francavilla, forse presso parenti. Il 2 aprile 1662, certamente per ulteriori pressioni e intimidazioni, non si potè fare il Capitolo, nonostante i presenti. Il 22 maggio il tragico epilogo: l’assassinio dell’arciprete in Francavilla per mano sicaria.
L’arcivescovo Caracciolo, ormai vecchio e addolorato, s’adoperò di far luce sul gravissimo episodio ma, cosa normale per quei tempi, senza alcun risultato. Il principe Cicinelli, venne sì inquisito, ma non si riuscì a condannarlo. L’atto di morte, recita freddamente: “ Il S. D. d. Francesco Antonio Caraglio, Arciprete delli Grottaglie passò a miglior vita e fu sepolto nella Collegiata con pompe funebri il 22 maggio 1662”.

OPERE

Il dotto e coraggioso arciprete grottagliese scrisse due opere che rimasero manoscritte per opposizione del feudatario laico di Grottaglie, ma che si sono conservate, grazie alle molte copie che si ebbe cura di fare:
  • Clypeus adversus Martinensium praetensiones, in due parti, “Il possessorio” (ossia la difesa) e il “Petitorio” (cioè l’accusa): l’opera è rivolta verso i martinesi a proposito della pretesa di quel clero circa la precedenza e la preminenza.
  • Status Insignis Ecclesiae Collegiatae Crypatliensis, in due tomi.
FONTI BIOGRAFICHE: Grottaglie nel tempo, Rosario Quaranta.

La ceramica di Grottaglie

Immagine di ceramica grottagliese

 La Puglia, storicamente, possiede il numero più alto di centri di produzione ceramica; dalle vetrine dei musei emergono, infatti, i nomi di Laterza, Martina Franca, Cutrufiano, Canosa, Lucera. Un ruolo centrale entro questa geografia così diversificata può essere affidato a Grottaglie, perchè diventata custode della memoria storica della ceramica con un doppio impegno, conservare valori e forme tradizionali e rinnovare i propri prodotti in uno sforzo sempre prudente, razionale, motivato da scelte ora di carattere tecnico-funzionali, ora di carattere artistico. La storia di questo incessante lavoro si può rintracciare sulla scorta del materiale proveniente dalle più importanti manifatture, da quelle cioè che hanno dato il via ed il tono a maniere notevoli, vuoi per l’ornato, vuoi per le forme e per i colori. In tal modo è possibile individuare una linea di continuità che dal periodo medievale giunge fino ai nostri giorni, partendo proprio da alcuni reperti rinvenuti casualmente nel 1989 sotto il locale castello (c. 1300) che presentano, analogia con quelli ritrovati presso il convento di S. Benedetto a Manduria, anch’essi di età medievale.
Questi, studiati e restaurati nel 1990 dagli allievi del corso di Restauro dell’Istituto Statale d’Arte di Grottaglie, grazie alla perfetta somiglianza riscontrata con quelli ritrovati a Grottaglie hanno fornito una valida testimonianza riguardo la costituzione dell’impasto utilizzato, la varietà delle forme, il tipo di decoro eseguito, e la scelta dei colori. L’attività ceramica medievale grottagliese, può essere posta in relazione all’occupazione delle terre meridionali da parte dei Saraceni, che avrebbero influenzato gli stilemi produttivi anche in epoca successiva; ma è peraltro probabile che tali stilemi fossero giunti per altre vie, quali, quella veneziana prima, spagnola poi. Per secoli l’attività fu rivolta soprattutto alla produzione di laterizi e mattoni per uso edilizio e di suppellettili ed oggetti di uso comune, per rispondere ad una domanda proveniente in particolar modo dal ceto contadino. La causa principale di una produzione che per tutto il cinquecento presenta ancora un carattere rustico, lontano dagli stilemi faentini, presenti invece nella ceramica della vicina Laterza, è sicuramente dipesa dalla mancata presenza in Grottaglie di corti principesche o feudali che potessero commissionare una ceramica più fine e di conseguenza più costosa.
Una particolare importanza riveste l’esame dei documenti conservati nell’Archivio di Stato di Napoli, pubblicati dallo studioso salentino Nicola Vacca, i quali dimostrano la presenza in Grottaglie dal 1663 della specializzazione “faenzara”, usata per indicare il fabbricante di oggetti ingobbiati a smalto, con sicurezza, importata dalla vicina Laterza dove appunto tale produzione era fiorente. La mancanza di un numero significativo di soggetti firmati o indicati esplicitamente come originari di Grottaglie nei secoli XVII-XVIII, viene spiegata dal fatto che i prodotti venivano identificati con le indicazioni del destinatario, quasi sempre appartenente alla nobiltà o alla ricca borghesia. Questo fa pensare che a Grottaglie si producessero oggetti d’arte, commissionati dalla nobiltà dei centri vicini, in particolar modo da Martina Franca, dov’era presente una piccola corte, quella dei Caracciolo ma dove invece si riscontrava una quasi totale assenza dei ceramisti nei catasti onciari. Il Seicento vide la persistenza di motivi decorativi medievali e il rifiuto a recepire le mode. Si rileva, invece, l’influsso che la vetreria e la ceramica veneta ebbero sulla ceramica salentina in particolare su Grottaglie, dovuta a stretti rapporti commerciali. Il Settecento fu ricco di una produzione “faenzara” che si effigiò di grandi nomi, quali Francesco Saverio Marinaro (1705-1772) che realizzò su vasellami, spesso di uso farmaceutico quali per esempio gli albarelli, decorazioni o a fregi di gusto classico e neoclassico, utilizzando in particolar modo il color bleu, tendente al violaceo.
Altro famoso ceramista fu Ciro Lapesa (1756-1826) che la tradizione erroneamente vuole formatosi a Capodimonte, ma che sicuramente subì influenze dalla scuola napoletana, come testimonia una zuppiera conservata nella raccolta dell’ Istituto Statale d’Arte di Grottaglie, decorata con festoncini ed elementi floreali. L’Ottocento assistette ad una definitiva cessazione dell’attività artigianale ceramica in molti centri limitrofi, primo fra tutti Laterza, ma anche Martina Franca e Taranto, dovuta in particolar modo all’introduzione nel mercato di materiali alternativi quali i metalli e le materie plastiche. Grottaglie fronteggiò tale stato di crisi, mediante l’apertura nel 1887 della Scuola d’Arte la quale doveva dare un nuovo impulso tecnologico al settore e avviare una produzione più pregiata. Tra l’Ottocento e il Novecento molti artigiani fondarono laboratori in vari centri italiani creando vere e proprie scuole ex novo aiutate dall’introduzione di nuovi macchinari, quali la macchina francizolle, l’impastatrice, il tornio elettrico. Con lo scorrere del tempo, l’elemento che rimane costante è la distinzione delle diverse specializzazioni lavorative-produttive, mantenuta per tutto il novecento fino ad oggi, con le relative derivazioni e sottofiloni. Tali filoni sono dunque quelli dell’ arte capasonara e faenzara. Il primo, è definito anche in altri modi che si integrano o identificano: “roba gialla”, (contenitori destinati principalmente per uso comune quali per esempio contenitori biansati o brocche trilobate come gli struli o i quartaruni) sottoposta ad ingobbiatura, bagnata cioè in argilla cocente o colorata in giallo miele, ottenuto con l’uso di ossidi di ferro e piombo, la cui quantità viene dosata in base alla tonalità che si vuol dare alla superficie; e “roba rustica” (oggetti di uso domestico e contadino quali per esempio le craste per il bucato) sottoposta ad una sola cottura, senza vernice, da qui il suo nome “rustica”, che indica il carattere molto grossolano della sua fattura. Con arte faenzara, definita anche “roba bianca” si è soliti invece identificare una ceramica ingobbiata e invetriata superficialmente (gli altri appellativi sono “roba fine”, o “gentile” o “sottile” che indicano precise funzioni) sottoposta a maggior cura durante la lavorazione che dà forma ad oggetti di uso più elettivo, a volte esclusivamente decorativo (soprammobili, piastrelle decorate, pannelli, servizi da portata).
Per quanto riguarda i motivi decorativi bisogna dire che per la categoria capasonara, si predilige il monocolore, verde, marrone, giallo o bianco latte; su particolari giare viene effettuata una decorazione derivata dall’arte primitiva, che basa il suo effetto sull’impiego di due toni del medesimo colore o sulla irregolare colata di smalto che ricopre il recipiente solo sulla parte superiore. Di bellissimo effetto è anche la decorazione incisa, sempre di ascendenza primitiva, con i suoi motivi geometrici, quali linee, meandri, onde, spirali o floreali, molto semplificati. Sulla produzione faenzara, invece si può riscontrare ancora nel settecento l’influenza araba; rara, quasi inesistente è infatti la figura umana e quando compare, e ciò avviene nell’ottocento, essa rientra in quel filone artistico sviluppatosi sulla riscoperta del costume regionale. Più tipici e ricorrenti sono le figurazioni di animali quali il galletto, policromo, nei colori rosso, bleu, arancio, simbolo di virilità, di chiaro eco arabo, ma anche farfalle, volatili, e tutta la gamma dei fiori e dei frutti della terra pugliese. Motivi geometrici di greche in manganese o in cobalto son realizzati alcune volte come unico fregio dell’oggetto, in altri casi si accompagnano alle decorazioni figurate. In realtà ciò che distingue l’iconografia eseguita dal figulo grottagliese è la traduzione in una forma direi dialettale dell’iconografia colta, propria di alcuni centri importanti quali per esempio Faenza.
Il figulo grottagliese, infatti, usava ed usa ancora oggi una ricca tavolozza di colori quali il verde ramina, il verde frasca o il verde antico, il bleu cobalto, il giallo ocra ferruginoso e il bruno manganese che accosta seguendo esclusivamente il suo impulso creativo, immediato, spontaneo. Dove invece egli segue in maniera scrupolosa i canoni decorativi e tecnici del passato è nella decorazione di oggetti di tipo greco. Qui infatti, dopo un’attenta documentazione mediante la consultazione di testi specializzati, vengono riprodotti fedelmente sia i cromatismi tipici della coroplastica antica , a figure sia nere che rosse, che i motivi decorativi e le rappresentazioni sceniche spesso a tema mitologico o eroico. 

Giuseppe Cardone

Immagine di repertorio, Giuseppe Cardone seduto a sinistra

NOME: Giuseppe

COGNOME: Cardone

LUOGO E DATA DI NASCITA:18 ottobre 1881, Nardò

PROFESSIONE: Musicista, compositore, maestro di banda

VITA: Cardone ebbe il merito di portare il complesso bandistico grottagliese ai vertici di quelli pugliesi e dell’intero meridione, realizzò l’originale iniziativa di un grande complesso bandistico lirico, che suscitò unanimi consensi e gli procurò, per la sua lunga e prestigiosa carriera, lusinghieri riconoscimenti. Giuseppe Cardone, che risiedette per gran parte della sua vita a Grottaglie, dove era giunto nel 1920, era nato a Nardò il 18 ottobre 1881. Negli anni dell’adolescenza fu affidato alle lezioni dei numerosi maestri locali ma, avendo mostrato grande talento, fu inviato, nel 1899 a Napoli, dove operava l’unico conservatorio del Mezzogiorno, famoso anche in campo internazionale: San Pietro a Maiella, dove fu allievo dei famosi maestri De Nardis e Caravaglios. Si diplomò brillantemente, tre anni dopo, in composizione armonica e strumentazione per banda. Venne subito ingaggiato per dirigere il Concerto bandistico di Miglionico e poi la banda di Latiano. Con il suo complesso bandistico effettua, su invito del console italiano in Turchia, una lunga tournè, in quel paese e in Grecia. Poi, lo scoppio della guerra prima, l’epidemia di “spagnola” poi, lo costringono a una lunga pausa durante la quale è costretto ad accettare un incarico per il quale non si sente tagliato: quello di maestro di cappella nella Basilica Cattedrale della sua Nardò. Ma arrivò il 1920, l’anno della svolta: il Comune di Grottaglie, che si trovava a dover recuperare il vuoto nella direzione e formazione della banda locale, a tre settimana dalla festa del santo patrono, gli rivolse un invito. Iniziò così una brillante carriera che lo portò ai massimi traguardi. Egli fu il primo a instaurare l’iniziativa del grande complesso bandistico –  lirico con l’inserimento di cantanti soprani, tenori e baritoni. Tra i cantanti più apprezzati che si esibivano col maestro Cardone la figlia Vally, soprano. La fama del maestro lo precedeva in ogni città del Meridione che egli, per anni, percorse in lungo e in largo. Decise di ritirarsi definitivamente all’età di 85 anni. Ma neppure allora volle abbandonare completamente la musica che era per lui come un elisir di eterna giovinezza e continuò, fin quando potè, a impartire lezioni a giovani allievi. Si spense all’età di 93 anni il 4 settembre 1974. Cardone ha scritto numerose composizioni, molte delle quali vengono eseguite comunemente da complessi bandistici, anche all’estero.

 

 

FONTI BIOGRAFICHE: “Grottaglie nel tempo”, Rosario Quaranta.