Salvatore Mario Trani

 

 Salvatore Mario Trani 

LUOGO E DATA DI NASCITA: 31 luglio 1918, Ischia

PROFESSIONE: sacerdote

VITA: Primo di otto figli Salvatore Mario Trani è nato ad Ischia, da Aniello e Lucia Bianco, il 31 luglio 1918. Da Ischia partì giovanissimo. Una vita apparentemente tranquilla quella del padre gesuita. Ma nella feconda produzione poetica ha rivelato una profonda ricchezza interiore, un elevato concetto della vita in tutti i suoi risvolti e squisita sensibilità artistica. Nel 1934 Trani entra nel Seminario vescovile di Ischia dove frequenta le classi IV^ e V^ ginnasiale. Nel 1934 presso il Seminario campano di Posillipo viene ammesso al primo liceo. Entra nel Noviziato dei Gesuiti in Villa Melecrinis sul Vomero il 20 settembre 1934. Supera come privatista l’esame di maturità classica presso il regio liceo Vittorio Emanuele III di Napoli. Nall’ottobre del 1939 viene trasferito a Gallarate (Varese) per il corso triennale di Filosofia presso l’Istituto Alaisianum dei gesuiti. Il 10 agosto 1942 gli muore la madre all’età di 48 anni. I Superiori lo inviano a Napoli presso il Convitto Pontano alla Conocchia per svolgere le mansioni di istitutore degli alunni per tre anni. Il 21 novembre 1951 consegue la laurea in Filosofia alla regia Università di Napoli. Nel 1945 consegue la licenza in teologia. Il 4 luglio 1948 è ordinato sacerdote da Mons. Fortunato Farina Vescovo di Foggia. Nel settembre 1949 viene inviato all’Istituto Pontano (Napoli) con le mansioni di guida spirituale degli alunni della scuola elementare media. Nel 1950 è a Firenze dove compie il Terzo Anno di formazione prescritto prima dell’ultima professione dei voti religiosi. Nel 1952 è inviato al Seminario pontificio di Reggio Calabria con l’ufficio di vice rettore. Nel 1958 è inviato come direttore spirituale presso l’Istituto Argento dei Padri Gesuiti di Lecce. Il 2 dicembre 1959 gli muore il padre ad Ischia, all’età di 74 anni. Nel 1961 è inviato come insegnante di Lettere nella Scuola Media Presso il Collegio d’Abruzzo. Dal 1967 al 1983 è Docente di Lettere e Preside della Scuola Di Cagno Abbrescia di Bari. Dal settembre 1983 è a Grottaglie dove svolgerà la sua attività pastorale ed è Cappellano delle Suore di Santa chiara. Ha direttola rivista “Tornate a Cristo” dal 1983 al 1996.

 

FONTI BIOGRAFICHE: Rivista di cultura e attualità – n° 2 marzo – aprile 2004, “LA VOCE di Grottaglie”.

 

OPERE

 TESTI POETICI:

  • Ciottoli (Bari, 1976) – Pulviscolo (Bari, 1976)
  • Sottovoce (Bari , 1977)
  • Ultrasuoni (Bari, 1978)
  • Dimensione-U (Bari, 1979) – Ali tese (Bari, 1979)
  • Racimoli  (Bari, 1980)
  • Vento folle (Bari, 1982)
  • Riflessioni (Bari, 1984)
  • Tra le pieghe del tempo (Grottaglie, 1992)

 

 TESTI ANTOLOGICI:

  • Preghiera – Voce della Poesia (Bologna, 1988)
  • Accordi in versi (Bologna, 1989) – Verso la luce (Taranto, 1989) – Sorella luna (Grottaglie, 1989)
  • Cielo (Bologna, 1990)
  • E’ verde il prato (Pomezia, Roma, 1991)
  • Messaggi azzurri (Grottaglie, 1993)
  • Poemetto leopardesco (Grottaglie, 1996)
  • Donna è poesia (Ladina, Bari, 2001)
  • Accordi (LaVOce di Grottaglie, 2004)
  • La corda della vita (di prossima pubblicazione)

 PROSA – NARRATIVA SAGGISTICA :

  • Chiesa del Gesù dei pp. Gesuiti dell’Aquila ( Aquila, 1964)
  • I randagi (Bergamo, 1979)
  • Lo studente (Bari, 1980)
  • Eroi senza medaglia (Bari, 1987)
  • Il peso della parola (Nicola Calabria Editore, 2002)
  • L’Agenda (Grottaglie, 1994)
  • I Gesuiti a Grottaglie (Grottaglie, 1997)

 RICONOSCIMENTI E PREMI LETTERARI:

 

  • “Scrittore del XX secolo”, (Bologna)
  • Premio della cultura “La quercia d’oro” e “Pantheon d’oro”, (Roma)
  • Premio europeo della cultura “San Marino” per l’anno mondiale della comunicazione indetto dall’Onu, (1983)
  • “Premio Europa cultura 1988”, (Bologna)
  • Premio nazionale di poesia “Conca d’oro”, (Palermo,1988)
  • Trani è accademico dei micenei. 

Strade

Via Francesco Crispi, Grottaglie

Bbasciu la Chiazza (giù alla piazza)

E’ l’attuale “Piazza Regina Margherita”. La piazza è stata quasi completamente ricostruita. Il visitatore che si recherà sul posto ritroverà soltanto l’edificio color rosso pallido, essendo stati demoliti gli altri, per dar posto ad una pretura, sotto utilizzata, ed alla piazzetta Rossano.

 

Bbasciu li Camenniri (giù al quartiere dei camini)

 La strada dei “Camenniri” è oggi l’attuale Via Crispi, nota come “Quartiere delle Ceramiche”

La presenza di molti camini ha dato il nome al quartiere, secondo alcuni, facendo derivare da questi il nome “camennri”; secondo altri il toponimo deriva dalla antichissima presenza di un tempio dedicato alle muse Camene.

 

La nghioscia (vicolo cieco)

La “nghioscia” raffigura un sistema di vita ormai sulla via del tramonto.

La disposizione delle porte e dei gradini sono il segno di un’architettura spontanea, che caratterizza il centro storico dei paesi meridionali. Le scale erano costruite, in genere, al di fuori del corpo di fabbrica, a meno che non si trattava di un palazzo signorile. I fiori ornavano i balconi e i terrazzi mentre le piante erano interrate nelle “craste” (vaso panciuto), di produzione locale.

 

La stazione

 La stazione fu realizzata nel secondo decennio del XX secolo.

Il comune, visto l’incremento della ferrovia provvide ad illuminare la strada che collegava la stazione al paese, con l’installazione di otto fanali.

Le condizioni attuali destano preoccupazione: assomiglia ad un carcere poiché le finestre sono state rinforzate con grate di ferro, per difendere l’interno dai vandali e risulta abbandonata da anni.

 

San Pietro (Pittaggio S.Pietro)

La ricorrenza dei SS. Pietro e Paolo era  festeggiata non solo celebrando la liturgia sacra nella cappella ad essi intitolata, ma anche organizzando una bella e caratteristica festa rionale sul piazzale antistante. La porta della chiesa è ora sostituita da una saracinesca, perché il vano è stato affittato come garage. L’edificio risale al 1656, come ricorda la lapide murata all’interno, al di sopra della porta d’ingresso: 

 

SS PIETRI PAOLI DIRUTA ECC(LESIA)

DEVOTONIS CAUSA

TUM

OBSUOR MISSA AUDIETU(R) COMOD(I)T(ER)

PROPRIO AERE CONSTRUI DIPINGI

FECERUNT AB FRANC(ISCO) PRIOR FRATRE

 

 

Sobbla Croce

Le arcate, costruite dopo il terremoto del XXIII sec., sono a sostegno dell’ala seicentesca del castello arcivescovile. Nell’arcata di sinistra, rispetto a chi guarda, si apre porta Castello o porta San Giorgio, dal nome di un’antica cappella, fuori le mura, dedicata questo santo.

La zona è nota col toponimo “sobbla croce”, forse per la presenza, nei pressi di una cappella votiva intitolata a “Santa Maria de Cruce”, ora abbandonata.

 

Sobbla Matalena (sulla Maddalena- largo in Via Risorgimento)

Il toponimo popolare deriva dalla cappella beneficiale, un tempo ivi esistente ed intitolata alla santa.

L’edificio sacro fu, probabilmente, elevato all’inizio del 1500. Questa cappella fu abbattuta nella seconda metà del 1800 per richiesta di alcuni cittadini i quali presentarono al comune una richiesta con cui, in nome del popolo, proponevano la demolizione di detta cappella, per creare una piazzetta che riuscisse a soddisfare i bisogni della popolazione.

Il fondo della piazza è occupato centralmente da Via Forleo, più nota come “lu pinnino” vale a dire il pendio. Le sue case, sostenute da archi, finiscono in Via Risorgimento, un tempo animata da un via vai di persone che si recavano a far compere nella piazzetta della Maddalena dove si svolgeva il mercato, e dove grazie alla presenza della fontana ci si approvvigionava sia d’acqua potabile sia di tutta l’acqua occorrente per le necessità familiari, per chi non aveva ancora la possibilità di installare un impianto d’acqua corrente nella propria abitazione. Alle spalle della fontana, un angolo del Palazzo Cometa,le cui senature e i capitelli si stagliano come colonne sui muri perimetrali.      

Sobblu Cruengu

“Sobblu cruengu” (dal greco grwnos, corroso incavato, caverne naturali) indica una zona piu’ comunemente conosciuta come  “sobbla la villa” ed oggi denominata piazza Principe di Piemonte. “Lu cruengu” era una grandissima cisterna che raccoglieva le acque fluitanti dalle colline vicine. Infatti il toponimo usato ancora da persone di una certa età, vuol dire terreno rugoso o caverna. Quando il paese cominciò ad espandersi al di fuori delle mura, ci si recava per attingere acqua con le pesanti “minzane” di creta (brocche di creta capaci di contenere 10-12 litri), di colore verde nella parte superiore, ocra in quella inferiore panciuta. Le bocche della cisterna erano cinque, allineate su di un’unica fila e tutte intercomunicanti. Il luogo è stato utilizzato fino alla fine degli anni trenta, inizi anni quaranta, non solo per approvvigionarsi d’acqua, ma anche per trascorrervi qualche ora pomeridiana e vespertina nel periodo estivo. Tutto ciò è stato smantellato, la cisterna colmata per dare sistemazione alla villa.            

 

Via Arciprete Maranò

Questo rione caratterizzato da vicoli e “nghjosce” termina nel largo antistante il castello episcopio risalendo l’agile pendio su cui si adagia il paese, “comu nna specchia ti petri mmuntarrata” (come un’ammasso di pietre ammucchiate).    

 

Via Castello

Via Castello prende nome dalla porta omonima e scende verso il centro del paese antico.

 

Via del Littorio

 

E’ l’odierna XXV Luglio. Rappresenta l’espressione dell’espansione urbanistica extra- moderna, cioè fuori le mura.

La regolarità della via e il suo sviluppo rettilineo, indice di modernità, contrasta con la tortuosità del centro storico.

 

Via Garibaldi

Via Garibaldi congiunge via A. Diaz con via Pignatelli, quella che conduce alla chiesa del Carmine, un tempo denominata Case Nuove; il toponimo fu cambiato in via G. Garibaldi.

 

Via XXV Maggio

Di questa via non è rimasto nulla di storicamente valido da salvare o da ricostruire: per chi conosce il paese è rimasto soltanto il rimpianto delle mura quattrocentesche di Giacomo d’Atri (arcivescovo di Taranto dal 1349 al 1378) sostituite da case, avendo favorito, gli amministratori del tempo, la demolizione, col pretesto di intralci urbanistici. Nel linguaggio popolare questa zona che comprendeva parte dell’agro grottagliese delimitato dalla stazione ferroviaria e dalla stessa ferrovia, fino al ponte della carrozzabile per monteiasi, veniva indicata come “bbasciu li sciardenniri”, cioè giù ai giardini. La via è nota anche con il nome “li murenniri” cioè le mura, tratto che collegava porta Sant’Antonio e porta Sant’Angelo.            

 

 

 

 

 

Alfonso Pignatelli

Alfonso Pignatelli

VICENDA: la mattina del 18 novembre un gravissimo fatto di sangue avvenne a Grottaglie ad opera del personaggio più in vista tra i liberali grottagliesi:Alfonso Pignatelli, già sindaco e successivamente parlamentare in ben quattro legislature. Questi incrociò il capo reazionario, tal Francesco Monaco (facente parte della famigerata Banda di Pizzichicchio), e dopo un’animata discussione, armato com’era di fucile, gli scaricò l’arma addosso, freddandolo all’istante. Nel processo che seguì e nella definitiva sentenza della Corte d’Appello (13 ottobre 1864), Pignatelli fu prosciolto.

 

 

FONTI BIOGRAFICHE: “Grottaglie nel tempo”, Rosario Quaranta

Santuario Madonna della Mutata

SANTUARIO MADONNA DELLA MUTATA

immagine presa da google

UBICAZIONE: Proseguendo per via XXV Luglio a pochi metri sulla destra si scorge la Gravina del Fullonese, dopo circa 7 km in aperta campagna giungiamo al Santuario.

PERIODO: X secolo.

NOTIZIE STORICHE, CRITICHE/CENNI STORICI: La denominazione di Mutata è legata ad un fatto prodigioso risalente al 1359. già dal X sec. sul luogo dove ora sorge il Santuario esisteva una chiesetta contesa tra gli abitanti di Grottaglie e Martina Franca in cui era custodita un immagine ad affresco della Madonna sulla parete a sud rivolta nella direzione di Martina Franca e quindi appartenutagli secondo i suoi concittadini. Il lunedì di Pentecoste del 1359 fu la Madonna stessa a risolvere la questione; l’immagine dipinta venne ritrovata sulla parete nord volta verso Grottaglie d’allora divenuta la patrona della cittadina. Per il miracoloso “mutamento” fu chiamata S. Maria Mutata.

I suoi corpi di fabbrica risalgono al XVII sec. quando fu ricostruito forse ad opera di Albornoz Egidio Carrillo (vescovo di Taranto dal 1630 al 1637) sui resti dell’antica basilica del X/XI sec. Lo stemma dell’illustre prelato è scolpito all’incrocio dei due bracci della croce greca su cui si sviluppa il luogo sacro.

Il Santuario ha i suoi momenti di vita durante la celebrazione di matrimoni nel mese di maggio, durante la ricorrenza del 15 agosto, giorno in cui si svolge un pellegrinaggio alla Madonna che parte dal Monastero di Santa Chiara e durante la Pasquetta che i grottagliesi sono soliti festeggiare la prima domenica dopo la Pasqua. Al di fuori di questi momenti, il silenzio domina incontrastato.

Adiacente alla chiesa si eleva la masseria omonima, non molto grande, con una caratteristica facciata su cui si adagia una scala. In alto sulla facciata e sul muro laterale si sinistra, sono scolpiti, rispettivamente gli stemmi degli arcivescovi Rossi Giovanni (arcivescovo di Taranto dal 1738 al 1750) e Marino Orsini (arcivescovo dal 1445 al 1471).

Un tempo nel campo circostante si svolgeva il “proelium giocosum” cioè la battaglia giocosa, con cui i grottagliesi commemoravano la vittoria dei Cristiani sui Turchi, a Rossano in Calabria. A quell’episodio bellico partecipò Pietro D’Onofrio, distinguendosi per valore e coraggio. Fu lui che portò le insegne turche al Santuario, dando inizio a questa rievocazione, culminante in una vera e propria battaglia fra turchi e cristiani. Infatti veritiera è l’ipotesi secondo la quale in nome “Mutata” da “Mutazione” indicava un luogo delle cavalcature e di riposo, ciò forse confermato appunto dall’attigua masseria a fianco del Santuario.

Il territorio circostante, come tutto l’agro di Grottaglie è ricco di storia confermata dalla moltitudine di reperti archeologici razziati in continuazione fin dai secoli scorsi.

DESCRIZIONE ARCHITETTONICA: La facciata si divine in tre zone longitudinali, quella centrale, maggiore sia nell’altezza che nella larghezza presenta cinque lesene sulle quali poggia il frontone triangolare, che si chiude con una croce greca. Sopra la porta d’ingresso una nicchia accoglie la statua della Vergine Mutata, il cui vetro di copertura è talmente ingiallito che impedisce la limpida visione della statua. Le zone laterali semplicemente lisce con due finestre, su quella sinistra si eleva il campanile a vela che sorregge le campane. L’interno è costituito da tre navate, quella centrale, ha tre campate con volte a crociera e si chiude con la cappella con altare maggiore in pietra ordinaria, illuminata da una bella vetrata intercalata da due tele (metà 600) che raffigurano: Gesù legato alla colonna e Gesù con la canna tra le braccia. Sempre nella stessa cappella è situato un interessante armadio intagliato che custodisce un “miracoloso” Crocifisso ligneo (metà 600) che la leggenda vuole si sia rivolto al suo scultore con le parole : “Ddo mi vitisti ca tale e quale mi facisti?”.

La navata a sinistra comprende : il primo altare con antica tela che rappresenta la Vergine del Carmelo tra Santi, nella seconda campata è accolto l’organo su impalcatura di legno; l’ultimo altare è sovrastato da una bella tela fata da Ciro Fanigliulo. Nella navata a destra: la prima campata accoglie l’altare con la statua di pietra calcarea di

S. Giuseppe (1679); della Vergine; segue l’altare dedicato alla Mutata con l’antico affresco della Madonna; da questa campata si eleva la cupola con ventagli dipinti, la terza campata è consacrata a S. Cataldo. Le volte che chiudono l’accogliente chiesa sono completamente affrescate. La chiesa è impreziosita da una bella pavimentazione in maiolica grottagliese del 600 con elementi decorativi geometrici o di foglie e fiori, sul fondo bianco predominano il giallo, il celeste e il rosa.

Racconti e leggende

google immagini

LEGGENDE DI GROTTE

Il termine grotta, sin dai tempi più remoti, ha sempre provocato, di generazione in generazione, un senso di paura, alimentando leggende e tradizioni popolari che si sono radicate nel patrimonio culturale grottagliese. Ancora oggi è possibile ascoltare dalla viva voce degli anziani, racconti di tesori, volgarmente detti “acchiature”, storie di chilometriche e profonde grotte e infine leggende sull’utilizzo delle grotte da parte di creature di indole cattiva. Fra le varie storie raccolte vene sono alcune caratterizzate da particolari atmosfere che attirano e danno spazio a magiche fantasie.

Oggi, purtroppo, rimane ben poco di quelle narrazioni che sono un piccolo ma importantissimo contributo a memoria di un’antica cultura contadina ormai quasi completamente scomparsa:

 

Grotta di Quinto Ennio

In tempi passati alcuni avventurieri muniti di fiaccole si addentrarono di notte nella grotta per esplorarla. Durante il loro tortuoso cammino ed in occasione di un piccolo bivacco, uno di loro si addentrò in un cunicolo e si assentò per un po’ di tempo. Al suo ritorno riferì ai suoi compagni di aver raggiunto attraverso sconosciute vie sotterranee, il Santuario della SS. Maria Madonna della Mutata, distante cinque chilometri.

 

Grotta Cripta di Riggio

Durante gli anni delle persecuzioni iconoclastiche, alcuni monaci provenienti dall’Oriente utilizzarono alcune cavità della gravina come propria dimora. Si racconta che questi, portando con loro un’ingente quantità di oro e pietre preziose le nascosero in una nicchia che venne murata e affrescata. Successivamente dei poveri illusi cercarono invano quelle ricchezze, bucando qua e là le pareti della grotta e danneggiando irreparabilmente molti degli affreschi tramandati dal Medioevo.

 

Buca delle palme

Si racconta che un cacciatore in battuta con il suo cane, sparò ad un passero che cadde nella voragine. Questi mandò il suo fedele amico a recuperare l’uccello. Purtroppo il can venne risucchiato da un fantomatico fiume sotterraneo e non fece più ritorno dal suo padrone.

 

Grotta della cornola

Si dice, che da tempo immemorabile, i contadini del luogo gettano nella grotta gli animali morti per malattie. A tal proposito, si narra che circa un centinaio di anni fa un tale ne abbandonò uno morente all’ingresso della cavità. Il giorno seguente, incuriosito, ritornò e si accorse che la carcassa dell’animale era scomparsa. Sorpreso dall’accaduto, allarmò prima la sua famiglia e poi gli amici che non diedero però molto credito all’accaduto. Qualche tempo dopo un evento analogo capitò ad un pastore che vi gettò una pecora. Il racconto vuole che il malcapitato avesse udito dall’interno della grotta degli strani ruggiti. In gran fretta si sparse la voce di una malefica creatura che si rifugiava nell’oscurità per mangiare gli animali che vi venivano gettati. Chiunque fosse entrato nella cavità per recuperare un oggetto o un animale smarrito, sarebbe stato divorato, a meno che non portasse con sé una catenina del Santo rosario o un’iconografia sacra.

Si pose fine ai pericolo gettando nella cavità una statuetta della vergine Maria che fece bruciare la demoniaca creatura.

 

  • Jattumamòni (gattomammone, essere mostruoso, demoniaco che si aggira nella natura e nel buio; parola usata dai nostri nonni per far intimorire i bambini e renderli più quieti: “statti cittu, ci noni véni Jattumamòni!”, stai zitto, altrimenti viene gattomammone!).

 

  • Lupu mannaro (licantropo, lupo mannaro, uomo che urla come un lupo per le vie durante la notte). Il lupo mannaro, che deriva dal basso latino lupus hominarius, è quel malato che nella notte di luna piena, ritiene di trasformarsi in lupo, di cui imita l’andatura a quattro zampe e gli ululati…provate ad immaginare! Questo paziente che durante le crisi è assalito da malinconia e da isterismo, è noto in psicopatologia con il nome di licantropo. Licantropo deriva dal greco Licaone, re dell’Arcadia e padre di cinquanta figli, tra cui quel Pencezio che, passato in Italia, diede il nome al territorio pugliese Pencezia, corrispondente, grosso modo, alla provincia di Bari. Secondo una leggenda; Licaone, dopo aver immolatop in onore di Zeus un bimbo, per l’empietà compiuta, fu trasf0rmato in lupo da Zeus stesso. La leggenda greca ed il conseguente mito arrivarono in Puglia forse con Pencezio e qui forse assunse quelle due nature che gli attribuisce la tradizione, una bestiale e brutta e l’altra umana.

Cfr. G, Interesse, Puglia mitica, Schena editore, Fasano, 1983.

 

Grave dei gufi

Si narra che nella voragine, un tempo profonda centinaia di metri, venne gettato dai briganti un contadino. Sembra che l’ombra del pover’uomo uscisse di notte nella grave per aggirarsi nelle strade di campagna alla ricerca dei suoi assassini.

 

Grotta Montepizzuto 1

Il custode della cava narra che, al momento della sua scoperta, dei cavatori, muniti di lampade ad olio, si addentrarono nella grotta, percorrendola per circa 100 metri. Fermatisi dinanzi all’imbocco di un enorme pozzo, lo misurarono con una corda lunga più di 300 metri che non sondò del tutto la voragine. Impauriti da quel tenebroso ignoto, gli esploratori uscirono in gran fretta giurando di non rientrarvi mai più.

 

Leggenda raccontata da don Cosimo Occhibianco

Una leggenda grottagliese narra che un ladro, notte tempo, penetrò nella chiesa collegiata per rubare tutti gli ex voto di oro, posti in una bacheca nella cappella di S.Ciro. Per la fretta aveva dimenticato di prendere la reliquia posta sul petto del Santo, allora salì sull’altare e mentre stava per prenderla, una mano misteriosa e forte lo afferrò per il petto e lo trattenne fino a quando, al mattino, giunse la forza pubblica per consegnarlo alla giustizia. I grottagliesi in seguito a questa leggenda coniarono il detto: va rrubb’a Santu Ggiru, ca ti zzécca pi ppiéttu.

  DI GROTTAGLIE, autore: Cosimo Calò

Ceramus, figlio di Bacco e Arianna, è secondo alcuni il prototipo e il protettore dei vasai; il suo nome fu imposto al quartiere di Atene occupato dai ceramisti. Altri attribuiscono l’invenzione dell’arte ceramica all’ateniese Coroebus o al corinziano Hyperbius o al cretese Talos, nipote di Dedalo. Omero, descrivendo la danza di Arianna, paragona la velocità dei giovani formanti cerchio a quella che il vasaio imprime alla ruota del suo tornio. Un brano attribuito al cieco immortale, riprodotto in una biografia composta, dicono, da Erodoto, esprime tutto ciò che la cottura dei vasi può presentare di eroico o di nefasto: dei vasai, intenti a accendere il fuoco nel forno, scorsero Omero e lo invitarono a cantar loro dei versi, promettendogli, quale prezzo della sua compiacenza, qualche vaso, ed Omero cantò: “Minerva, io ti invoco! Compari qui e presta la tua mano abile al lavoro del forno; che i vasi che vi debbano uscire, e soprattutto quelli destinati alle cerimonie religiose, anneriscano a punto; che tutti si cuociano al grado di fuoco conveniente e che, venduti caramente, siano essi ed in gran numero sui mercati e nelle vie della nostra città; infine che essi siano per i vasai una fonte abbondante di profitto e per me una occasione nuova per cantarti. Ma se voi volete ingannarmi, o spudorati, io invoco contro i vostri forni i flagelli più terribili: e Syntrips e Smaragos e Asbestos e Abactos e soprattutto Omodamos, che più di ogni altro è il distruttore dell’arte che voi professate, che il fuoco divori la vostra fabbrica, che tutto ciò che contiene il forno si mescoli e si confondi senza scampo, e che il vasaio tremi di terrore a questo spettacolo, che il forno faccia sentire un rumore simile a quello che fanno le mascelle di un cavallo irritato, e che tutti i vasi fracassati non siano più che un ammasso di cocci”.

 

Leggenda del Laùru

Si diceva, e ancora oggi i nonni ci raccontano, che il laùru era un folletto che veniva di notte a fare i dispetti. Egli è noto per i “nodi ai capelli” e per le trecce alle criniere dei cavalli. Si è soliti narrare anche che se una persona riesce a togliergli il cappelletto, diventa ricco (immaginate che fortuna!!!).