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Fauna a Grottaglie

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Nel passato, quando abbondava l’acqua (c’era una cascata, un corso d’acqua permanente e il notevole serbatoio detto “caggione”, con acqua in permanenza sufficiente per le necessità degli abitanti della gravina), gli uccelli abbondavano, come anche molte specie acquatiche.

Le stanziali erano presenti anche in grande numero e parecchie nidificavano nella gravina stessa.

La Gravina di Riggio era un paradiso ornitologico, nel quale non mancavano le specie più belle e interessanti, come la Ghiandaia, il giallo-nero Rigogolo, il superbo Gufo reale, ecc.

Non mancavano il Martin pescatore e qualche Spatola, anche se rara. Frequenti anche gli Aironi (cinerino e rosso).

Ancora oggi, seppur in quantità minima, si possono trovare di passo o stanziali.

L’elenco finale delle specie faunistiche annovera 48 presenze. Tra quelle più noti:

  • Allocco;
  • Averla;
  • Ballerina;
  • Beccaccino;
  • Cardellino;
  • Civetta;
  • Fringuello;
  • Gufo reale;
  • Merlo;
  • Passero solitario;
  • Pettirosso;
  • Rondine;
  • Storno;
  • Barbagianni;
  • Tordo;
  • Tortora;
  • Usignolo;
  • Ecc.

La ceramica di Grottaglie

Immagine di ceramica grottagliese

 La Puglia, storicamente, possiede il numero più alto di centri di produzione ceramica; dalle vetrine dei musei emergono, infatti, i nomi di Laterza, Martina Franca, Cutrufiano, Canosa, Lucera. Un ruolo centrale entro questa geografia così diversificata può essere affidato a Grottaglie, perchè diventata custode della memoria storica della ceramica con un doppio impegno, conservare valori e forme tradizionali e rinnovare i propri prodotti in uno sforzo sempre prudente, razionale, motivato da scelte ora di carattere tecnico-funzionali, ora di carattere artistico. La storia di questo incessante lavoro si può rintracciare sulla scorta del materiale proveniente dalle più importanti manifatture, da quelle cioè che hanno dato il via ed il tono a maniere notevoli, vuoi per l’ornato, vuoi per le forme e per i colori. In tal modo è possibile individuare una linea di continuità che dal periodo medievale giunge fino ai nostri giorni, partendo proprio da alcuni reperti rinvenuti casualmente nel 1989 sotto il locale castello (c. 1300) che presentano, analogia con quelli ritrovati presso il convento di S. Benedetto a Manduria, anch’essi di età medievale.
Questi, studiati e restaurati nel 1990 dagli allievi del corso di Restauro dell’Istituto Statale d’Arte di Grottaglie, grazie alla perfetta somiglianza riscontrata con quelli ritrovati a Grottaglie hanno fornito una valida testimonianza riguardo la costituzione dell’impasto utilizzato, la varietà delle forme, il tipo di decoro eseguito, e la scelta dei colori. L’attività ceramica medievale grottagliese, può essere posta in relazione all’occupazione delle terre meridionali da parte dei Saraceni, che avrebbero influenzato gli stilemi produttivi anche in epoca successiva; ma è peraltro probabile che tali stilemi fossero giunti per altre vie, quali, quella veneziana prima, spagnola poi. Per secoli l’attività fu rivolta soprattutto alla produzione di laterizi e mattoni per uso edilizio e di suppellettili ed oggetti di uso comune, per rispondere ad una domanda proveniente in particolar modo dal ceto contadino. La causa principale di una produzione che per tutto il cinquecento presenta ancora un carattere rustico, lontano dagli stilemi faentini, presenti invece nella ceramica della vicina Laterza, è sicuramente dipesa dalla mancata presenza in Grottaglie di corti principesche o feudali che potessero commissionare una ceramica più fine e di conseguenza più costosa.
Una particolare importanza riveste l’esame dei documenti conservati nell’Archivio di Stato di Napoli, pubblicati dallo studioso salentino Nicola Vacca, i quali dimostrano la presenza in Grottaglie dal 1663 della specializzazione “faenzara”, usata per indicare il fabbricante di oggetti ingobbiati a smalto, con sicurezza, importata dalla vicina Laterza dove appunto tale produzione era fiorente. La mancanza di un numero significativo di soggetti firmati o indicati esplicitamente come originari di Grottaglie nei secoli XVII-XVIII, viene spiegata dal fatto che i prodotti venivano identificati con le indicazioni del destinatario, quasi sempre appartenente alla nobiltà o alla ricca borghesia. Questo fa pensare che a Grottaglie si producessero oggetti d’arte, commissionati dalla nobiltà dei centri vicini, in particolar modo da Martina Franca, dov’era presente una piccola corte, quella dei Caracciolo ma dove invece si riscontrava una quasi totale assenza dei ceramisti nei catasti onciari. Il Seicento vide la persistenza di motivi decorativi medievali e il rifiuto a recepire le mode. Si rileva, invece, l’influsso che la vetreria e la ceramica veneta ebbero sulla ceramica salentina in particolare su Grottaglie, dovuta a stretti rapporti commerciali. Il Settecento fu ricco di una produzione “faenzara” che si effigiò di grandi nomi, quali Francesco Saverio Marinaro (1705-1772) che realizzò su vasellami, spesso di uso farmaceutico quali per esempio gli albarelli, decorazioni o a fregi di gusto classico e neoclassico, utilizzando in particolar modo il color bleu, tendente al violaceo.
Altro famoso ceramista fu Ciro Lapesa (1756-1826) che la tradizione erroneamente vuole formatosi a Capodimonte, ma che sicuramente subì influenze dalla scuola napoletana, come testimonia una zuppiera conservata nella raccolta dell’ Istituto Statale d’Arte di Grottaglie, decorata con festoncini ed elementi floreali. L’Ottocento assistette ad una definitiva cessazione dell’attività artigianale ceramica in molti centri limitrofi, primo fra tutti Laterza, ma anche Martina Franca e Taranto, dovuta in particolar modo all’introduzione nel mercato di materiali alternativi quali i metalli e le materie plastiche. Grottaglie fronteggiò tale stato di crisi, mediante l’apertura nel 1887 della Scuola d’Arte la quale doveva dare un nuovo impulso tecnologico al settore e avviare una produzione più pregiata. Tra l’Ottocento e il Novecento molti artigiani fondarono laboratori in vari centri italiani creando vere e proprie scuole ex novo aiutate dall’introduzione di nuovi macchinari, quali la macchina francizolle, l’impastatrice, il tornio elettrico. Con lo scorrere del tempo, l’elemento che rimane costante è la distinzione delle diverse specializzazioni lavorative-produttive, mantenuta per tutto il novecento fino ad oggi, con le relative derivazioni e sottofiloni. Tali filoni sono dunque quelli dell’ arte capasonara e faenzara. Il primo, è definito anche in altri modi che si integrano o identificano: “roba gialla”, (contenitori destinati principalmente per uso comune quali per esempio contenitori biansati o brocche trilobate come gli struli o i quartaruni) sottoposta ad ingobbiatura, bagnata cioè in argilla cocente o colorata in giallo miele, ottenuto con l’uso di ossidi di ferro e piombo, la cui quantità viene dosata in base alla tonalità che si vuol dare alla superficie; e “roba rustica” (oggetti di uso domestico e contadino quali per esempio le craste per il bucato) sottoposta ad una sola cottura, senza vernice, da qui il suo nome “rustica”, che indica il carattere molto grossolano della sua fattura. Con arte faenzara, definita anche “roba bianca” si è soliti invece identificare una ceramica ingobbiata e invetriata superficialmente (gli altri appellativi sono “roba fine”, o “gentile” o “sottile” che indicano precise funzioni) sottoposta a maggior cura durante la lavorazione che dà forma ad oggetti di uso più elettivo, a volte esclusivamente decorativo (soprammobili, piastrelle decorate, pannelli, servizi da portata).
Per quanto riguarda i motivi decorativi bisogna dire che per la categoria capasonara, si predilige il monocolore, verde, marrone, giallo o bianco latte; su particolari giare viene effettuata una decorazione derivata dall’arte primitiva, che basa il suo effetto sull’impiego di due toni del medesimo colore o sulla irregolare colata di smalto che ricopre il recipiente solo sulla parte superiore. Di bellissimo effetto è anche la decorazione incisa, sempre di ascendenza primitiva, con i suoi motivi geometrici, quali linee, meandri, onde, spirali o floreali, molto semplificati. Sulla produzione faenzara, invece si può riscontrare ancora nel settecento l’influenza araba; rara, quasi inesistente è infatti la figura umana e quando compare, e ciò avviene nell’ottocento, essa rientra in quel filone artistico sviluppatosi sulla riscoperta del costume regionale. Più tipici e ricorrenti sono le figurazioni di animali quali il galletto, policromo, nei colori rosso, bleu, arancio, simbolo di virilità, di chiaro eco arabo, ma anche farfalle, volatili, e tutta la gamma dei fiori e dei frutti della terra pugliese. Motivi geometrici di greche in manganese o in cobalto son realizzati alcune volte come unico fregio dell’oggetto, in altri casi si accompagnano alle decorazioni figurate. In realtà ciò che distingue l’iconografia eseguita dal figulo grottagliese è la traduzione in una forma direi dialettale dell’iconografia colta, propria di alcuni centri importanti quali per esempio Faenza.
Il figulo grottagliese, infatti, usava ed usa ancora oggi una ricca tavolozza di colori quali il verde ramina, il verde frasca o il verde antico, il bleu cobalto, il giallo ocra ferruginoso e il bruno manganese che accosta seguendo esclusivamente il suo impulso creativo, immediato, spontaneo. Dove invece egli segue in maniera scrupolosa i canoni decorativi e tecnici del passato è nella decorazione di oggetti di tipo greco. Qui infatti, dopo un’attenta documentazione mediante la consultazione di testi specializzati, vengono riprodotti fedelmente sia i cromatismi tipici della coroplastica antica , a figure sia nere che rosse, che i motivi decorativi e le rappresentazioni sceniche spesso a tema mitologico o eroico. 

Giuseppe Cardone

Immagine di repertorio, Giuseppe Cardone seduto a sinistra

NOME: Giuseppe

COGNOME: Cardone

LUOGO E DATA DI NASCITA:18 ottobre 1881, Nardò

PROFESSIONE: Musicista, compositore, maestro di banda

VITA: Cardone ebbe il merito di portare il complesso bandistico grottagliese ai vertici di quelli pugliesi e dell’intero meridione, realizzò l’originale iniziativa di un grande complesso bandistico lirico, che suscitò unanimi consensi e gli procurò, per la sua lunga e prestigiosa carriera, lusinghieri riconoscimenti. Giuseppe Cardone, che risiedette per gran parte della sua vita a Grottaglie, dove era giunto nel 1920, era nato a Nardò il 18 ottobre 1881. Negli anni dell’adolescenza fu affidato alle lezioni dei numerosi maestri locali ma, avendo mostrato grande talento, fu inviato, nel 1899 a Napoli, dove operava l’unico conservatorio del Mezzogiorno, famoso anche in campo internazionale: San Pietro a Maiella, dove fu allievo dei famosi maestri De Nardis e Caravaglios. Si diplomò brillantemente, tre anni dopo, in composizione armonica e strumentazione per banda. Venne subito ingaggiato per dirigere il Concerto bandistico di Miglionico e poi la banda di Latiano. Con il suo complesso bandistico effettua, su invito del console italiano in Turchia, una lunga tournè, in quel paese e in Grecia. Poi, lo scoppio della guerra prima, l’epidemia di “spagnola” poi, lo costringono a una lunga pausa durante la quale è costretto ad accettare un incarico per il quale non si sente tagliato: quello di maestro di cappella nella Basilica Cattedrale della sua Nardò. Ma arrivò il 1920, l’anno della svolta: il Comune di Grottaglie, che si trovava a dover recuperare il vuoto nella direzione e formazione della banda locale, a tre settimana dalla festa del santo patrono, gli rivolse un invito. Iniziò così una brillante carriera che lo portò ai massimi traguardi. Egli fu il primo a instaurare l’iniziativa del grande complesso bandistico –  lirico con l’inserimento di cantanti soprani, tenori e baritoni. Tra i cantanti più apprezzati che si esibivano col maestro Cardone la figlia Vally, soprano. La fama del maestro lo precedeva in ogni città del Meridione che egli, per anni, percorse in lungo e in largo. Decise di ritirarsi definitivamente all’età di 85 anni. Ma neppure allora volle abbandonare completamente la musica che era per lui come un elisir di eterna giovinezza e continuò, fin quando potè, a impartire lezioni a giovani allievi. Si spense all’età di 93 anni il 4 settembre 1974. Cardone ha scritto numerose composizioni, molte delle quali vengono eseguite comunemente da complessi bandistici, anche all’estero.

 

 

FONTI BIOGRAFICHE: “Grottaglie nel tempo”, Rosario Quaranta.

 

Cappelle urbane

S. Maria in Campitelli, una delle chiese elencate

S. Lorenzo

Una volta fuori dell’abitato, sita sulla strada che da porta S. Angelo si dirigeva alla chiesa di San Francesco di Paola, è oggi inglobata nelle costruzioni di via XXV Luglio. Appartiene al secolo XVI ed è sconsacrata da alcuni decenni. La lunetta sovrastante il portale conserva ancora un affresco residuo raffigurante il santo martire Lorenzo.

 

S. Maria in Campitelli

Si trova nel rione omonimo e risulta ormai nascosta e soffocata dalle costruzioni circostanti; meriterebbe un recupero anche per motivi storici.

 

S. Nicola Nuovo

La prima costruzione risale al sec. XIV.

 

S. Maria della Serra

Una delle chiese più antiche; fu sede nei secoli XVII-XIX della confraternita dello Spirito Santo.

 

S. Marco

Era la chiesa annessa al vecchio Ospedale fondato dall’arciprete Leonardo Cecere nel 1464.

  • Lucia;
  • Veneranda;
  • Pietro;
  • Maria della Pietà;
  • Giorgio;
  • Angelo (presso l’antica porta principale);
  • Benedetto;
  • Giacomo Maggiore e Filippo;
  • Giuliano;
  • Maria Maddalena;
  • Nicola Vecchio;
  • Salome;
  • Stefano dei Giudei.

Vincenzo Laviosa

Immagine di repertorio

NOME: Vincenzo
COGNOME: Laviosa
LUOGO E DATA DI NASCITA: 9 maggio 1887, Grottaglie
PROFESSIONE: fotografo, pittore, scenografo
VITA: Nasce a Grottaglie il 9 maggio 1887 da Filomeno Laviosa (giornalista e scrittore) e dall’ insegnante Francesca Marseglia.
Aveva pochi anni quando suo padre, rimasto vedovo, decise di trasferirsi a Taranto, dove intraprese la carriera di giornalista e l’insegnamento in una scuola elementare di Grottaglie. L’attività giornalistica del padre stimolò in lui l’interesse e l’attenzione verso la fotografia. Così, nel 1901, iniziò il suo apprendistato nei laboratori fotografici Iozzi, Desiati, Albano, Cimpincio. Il suo talento e la sua attitudine gli permisero di diventare a soli 19 anni direttore di studio nello stabilimento fotografico Broia a Taranto. Ma ben presto egli passò dal suo laboratorio fotografico nella provincia leccese e successivamente cominciò a viaggiare per tutta l’Italia. In questo periodo elaborò un tipo di lastra che gli permise di ottenere “en plein air” effetti stupefacenti, uguali a quelli che si riuscivano ad ottenere nella galleria di posa.
Ma in seguito ottenne anche altre onorificenze. Nel 1908 ebbe il primo importante riconoscimento: la giuria dell’Esposizione internazionale di Roma gli conferì il Gran premio con medaglia d’oro per gli alti meriti della sua produzione fotografica. Iniziò così la sua brillante, ma breve carriera.
Il servizio militare lo svolse in parte a Roma, quale soldato addetto allo Stabilimento di Costruzioni aeronautiche. Qui, fu adibito a ricerche di micrometallografia e di fotografia di tessuti, nell’ambito delle ricerche sugli involucri destinati ai dirigibili italiani.
Uno degli episodi più celebri legati a Laviosa è quello del ritratto, realizzato il 18 dicembre 1922, al capo del Governo Benito Mussolini. Questi, entusiasta del ritratto, così scrisse sotto la foto: “Al Grand’Ufficiale Laviosa che mi ha finalmente riprodotto come sono”.
Grazie all’incoraggiamento di un suo grande amico, il tenore Beniamino Gigli, nel 1923,  partì da Napoli per New York. Qui, impiantò uno studio fotografico nella East Street.
Ben presto riuscì a conquistarsi la fama meritata.
Il commendatore Vincenzo Laviosa, che nel 1921 era stato insignito dell’onorificenza di Grand’Ufficiale della Corona d’Italia e poi del cavalierato dell’Ordine Mauriziano, ricevette numerose attestazioni di stima.
E maestro della luce Laviosa si rilevò davvero, nei suoi anni in America, grazie alle sue lastre “miracolose”.
Intorno al 1930 Vincenzo Laviosa, che aveva trasferito il suo studio nella centralissima Quinta Strada, divenne punto di riferimento di fotografi e studiosi della fotografia.
 Si spense il 10 dicembre 1935, colto da un male repentino quanto incurabile, lontano dalla sua terra, assistito dal fratello di secondo letto Angiolino, che ereditò il prezioso patrimonio artistico.
 
FONTI BIOGRAFICHE: “Grottaglie nel tempo”, Rosario Quaranta.